Una poesia oggettuale, materica, costantemente sul crinale tra arte quale artificio e vita marchiata a fuoco sulla carne viva. Non un verso, non una parola, non un fonema risulta estraneo al vissuto, benché sapientemente costruito, si direbbe fabbricato pietra su pietra, a partire dal lessico seletto.
Il pensiero, fomentato da un’interiore pienezza creativa, si fa imago stagliata in movimento (ut pictura poësis: a ciò si deve il prevalere di architetture sintattiche coordinative, con rarissime subordinate) e l’immagine diventa musica; una musica sovente atonale, dodecafonica, essendo gli acuti più stridenti alternati al bassocontinuo incarnato dalla voce del dolore, parola – non è indizio dappoco – che ricorre una sola volta.
Chi ha avuto il privilegio di conoscere la persona di Sànzari Panza sa bene che il suo modo di lavorare è altrettanto originale che stupefacente: come in preda a trance, traduce rapidissimamente in parola quel che nella mente è già perfettamente compiuto in termini di forma statica o cinetica, quasi si trattasse non già di creazioni proprie, ma di altrui suggestioni; dopodiché ha inizio la lunga, travagliata fase rielaborativa, durante la quale nulla si salva dal rigore correttorio.
Dalla prefazione di Gualberto Alvino
Rassegna stampa
“Una poesia intensa, avvolgente, che non lascia indifferenti.”
Fiorenzo Toso
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