Un bel tipo francese, tale Maxim Palamede Pantà, lionese e capitano dei dragoni, arriva nella Bassa mantovana dopo la rotta di Rossbach (1757, guerra dei sette anni). Stanco di orrori guerreschi, strade polverose e “frastuono della fucileria prussiana”, decide di stabilirsi in quel di Santiago de los Signor, l’attuale San Giacomo delle Segnate.
Il seme francese, mescolandosi ora con energiche ora con scialbe bellezze locali, popola la Bassa padana di personaggi eccentrici le cui vicende si intrecciano gustosamente con la storia dell’Italia in fieri fino a culminare nell’eroe eponimo, quell’Ugo Leonello Pantà, nato a Carpi – “vecchio e industrioso principato dei Pio Di Savoia” – e altrimenti noto come Leon Pantà, o il Macinato, amico, del resto, di tale Oberto Carlo Traverso, detto il Ghignodoro o l’Inedito sfigato, protagonista di diverse altre avventure narrate nel romanzo che lo segue e lo completa.
Con un linguaggio barocco e ironico, contorto e beffardo, artificiosamente dotto nella sua solennità provinciale, Parmeggiani tratteggia una cronaca semiepica e grottesca dell’Italietta nostrana, quella dell’ultimo cinquantennio. Leon Pantà, infatti e, come nel seguito della narrazione, Oberto Carlo Traverso, concentrano in se stessi gli italici vizi e le virtù. Tanto che i due romanzi uniti in un unico volume sono intrisi di tutti gli umori, le fissazioni e le piccole follie che promanano da una terra di nebbie e calure, rivelando un Paese dal coté irrimediabilmente provinciale.
Due romanzi, componenti la Dilogia del Principato, icastici e sentimentali quanto dissacranti che lasciano una traccia durevole nella memoria del lettore.