A cura di Renzo Oliva
Quando apparve nel 1902, La fabbrica di angeli fu accusata, oltre che di rivelare i perversi meccanismi del mondo poco conosciuto delle balie, di aver affrontato un tema tabù, quello della prostituzione delle donne ebree, rivelando aspetti del mondo ebraico che sarebbe stato più prudente tenere nascosti agli occhi di un pubblico russo naturalmente ostile. In compenso vennero subito apprezzati i suoi dialoghi, vivaci, che davano rilievo ai suoi personaggi, pervasi da quel colorito odessita, che pochi anni più tardi sarebbe stato immortalato da un altro suo conterraneo, Isaak Babel’. La verità è che Juškevič non si sentiva legato dalla sua appartenenza etnica, e descriveva il mondo che conosceva di prima mano (soprattutto Odessa e la sua periferia, il quartiere della Moldavanka) con un occhio critico, impietoso (non per nulla era un medico come Čechov). Nel racconto, scarno, non ci sono orpelli etnografici o folkloristici, c’è la descrizione crudele dello squallore fisico e della degenerazione morale creati dalla povertà.