Come un tumultuoso, barocco sueño del infierno – una “voragine” che inghiotte “qualsiasi forma di nostalgia” e poi la rovescia in impegnata consapevolezza contro un contesto dove “tutto è futile, tutto è smagliato/ […,]/ lasciato lì” – è questo libro votato a un’autobiografica Identificazione fisiologico-comportamentale: libro avverso all’infetto “scenario di cartapesta”, all’“entropia universale” che tutti ci aduggia e il poeta stigmatizza “senza troppo zelo ma non troppo disimpegno”. Lui, âgé per l’inane anagrafe, è ancora quel ragazzo dallo spirito avventuroso (“Sembri uno zingaro mi diceva mia madre”) che torna “a casa sporco, stracciato, in disordine, eccetera”; e subito dopo, inesausto e metamorfico dandy, eccolo, impassibile, raffrenando ogni sdegno e passione, ad “annodarsi la cravatta nella tormenta”.
Infatti, non c’è zelo nel rapporto con l’immediatezza delle cose da parte d’uno scrittore ‘totale’ qual è Mario Lunetta; bensì un sobrio engagement filtrato dalla registrazione, critica e paradossalmente onirica, d’una realtà che, assunta per quella che è, appare poi ‘sognata’ per come dovrebbe essere.
L’ingegno affabulatorio e la militanza critica, la chiarezza illuministico-antilirica legata a una smagliante lucidità intellettuale, un sorvegliato sarcasmo e l’arguzia polemica caratterizzano, oltre alla metafora “biometrica” dell’autore, il perspicuo risvolto identitario di quest’opera che, scritta in nome della poesia, compendia i talenti di un autore la cui opera complessiva resta un riferimento essenziale della letteratura italiana secondonovecentesca.