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Il bianco è l’impostore che permeando
a caso, permane come grazia.
È il velo che c’informa
dell’accento che conduce ad una forma.
Sin dai primi versi di questa prima raccolta di Nuria Scapin è ben riconoscibile la natura peculiare di questo poeta: la domanda se “le parole siano dimore di desiderio” come “il desiderio è dimora per la parola”, è “sintomo d’un atteggiamento mentale/che distingue l’uomo dal naturale”. La poesia di Nuria Scapin è, infatti, poesia del desiderio. Ciò non vuol dire solamente che la parola esprime qui, in varie forme, il desiderio, ma anche che il desiderio è prima di tutto desiderio della parola: parola e desiderio sono in un rapporto di generazione e attrazione reciproca. In questa tensione fondamentale tra i due poli – che è, si dice subito, tensione tra il “naturale” e, diremmo, la conoscenza – si misura tutto il ricco mondo poetico di “Muschio”. La presenza ricorrente di fioriture, di foglie autunnali, di lievi fruscii, di battiti d’ala, indica proprio questo ansimante, bruciante desiderio della natura di essere violata nelle parole, il pathos e il terrore di farsi conoscenza. È la natura intera qui a specchiarsi nel poeta-Narciso, il cui corpo “ospita il mandorlo”, e la cui parola celebra le nozze tra il cielo e la chiara marina uniforme. Ma questa parola, al tempo stesso, ha un carattere necessariamente nostalgico, e segna una perdita. La studiata tessitura di rime interne, le violente cesure, la lingua che mescola sapientemente forme arcaiche e forme quotidiane, tutto ci restituisce poeticamente la grazia e il mistero che si celebra e infine malinconicamente si scioglie da noi: “Non c’è più una causa, solo una stella con la sua tenue melodia”. Il vero mistero comincia con la contemplazione nostalgica di ciò che “non fu/ e come per me non è/ sempre sarà da quel momento e poi”.