“La scrittura di Bruno Conte la si direbbe composta, sia nel codice prosastico che in quello versale, di piccoli blocchi di porfido saldati l’uno all’altro non per via consecutiva ma per via orizzontale (o trasversale) sul filo di una morbidezza impassibile, per vivere nel mondo (o per resistere ai suoi urti e ai suoi trabocchetti) come in una scatola di strette pareti e di stretto orizzonte. Un carcere di parole e di figure, insomma, in cui sono ristretti con gli stessi vincoli gli uomini, gli animali, i vegetali, i minerali, le cose – e quelle particolarissime cose che chiamiamo opere d’arte; e i pensieri, e i sogni. Una democrazia assoluta e assolutamente minimale, da cui – piuttosto incredibilmente – sembra esclusa quella via di fuga dalle situazioni estreme che è l’ironia. La pronuncia è una e implacabile, e si sviluppa su un pedale invariato, che è quello dell’indifferenza ai disposti del destino o del caso, comprese le ipotesi più catastrofiche.
In realtà, è tutto un trucco. Siamo nel dominio dell’irreale e dell’onirico, irrimediabilmente, dal momento che – come dice Colui – la vita è sogno. Quindi, siamo nel dominio dell’iperreale: e – per meglio dire – del vero. Conte è l’osservatore che conosce già tutto, o comunque lo intuisce: e questo gli impedisce di provare il sia pur minimo brivido registrando sul suo attentissimo geiger i disastri (immensi o millimetrici) che la sua scrittura e le sue immagini trasmettono con magnifica imperturbabilità all’attonito, sgomento o divertito lettore.”
Dalla postfazione di Mario Lunetta